Quest’estate ho avuto la fortuna di navigare per due settimane su una bellissima barca a vela di venti metri. Quando glissava a vele spiegate tra le isole croate, la guardavo con tanta ammirazione e sottovoce le ripetevo: “Ma quanto sei bella…”
È davvero stupenda, veloce e molto comoda ed io mi sentivo onorata di poter essere a bordo di una barca così. Durante la navigazione, però, mi sembrava che mi mancasse qualcosa. O forse c’era qualcosa di troppo.
Seduta sottovento, avevo lo sguardo perso nelle onde luccicanti che volavano via veloci. I pensieri e i problemi erano ormai lontani, rimasti a riva, come sempre. A loro non permetto mai di salire in barca con me. Avevo il cervello in stand-by, come si suol dire, ma di colpo un allarme mi svegliò dal mio beato stato meditativo. “Uffa, che peccato”, pensai ogni volta, andando in pozzetto per silenziare l’allarme. Il silenzio del mare, che per me è una componente essenziale della navigazione, veniva interrotto un po’ troppo spesso da vari e fastidiosi bip bip bip. La barca ovviamente ha un pilota automatico e winch elettrici, che facilitano enormemente il lavoro all’equipaggio, ma anche loro mi sembra tolgano alla navigazione un po’ di romanticismo. Non ci posso fare niente: quando sono al timone in un pozzetto dove non c’è un solo strumento, quando faccio un rilevamento con la bussola e lo riporto poi su una carta nautica con una matita appuntita, quando mi viene il fiatone issando la randa, quando l’unico rumore che sento è lo scroscio dell’acqua, ecco che la vela diventa poesia.
E se è vero che per me in barca esiste una relazione inversa tra la tecnologia e la poesia, allora l’imbarcazione più romantica che io abbia mai visto è senza dubbio la Hokule’a.
Era l’aprile del 2017. Spiaggia di Point Venus a Tahiti. Ero in mezzo a una folla di centinaia di persone, tutti a piedi nudi, tutti con lo sguardo fisso sull’orizzonte. Dopo un po’ finalmente arrivò – lei, la festeggiata, la Hokule’a dalle vele rosse. La guardavamo tutti con tanta ammirazione, quando poi entrò nella baia decine di braccia si alzarono agitando foglie di palma in segno di benvenuto. Poi qualcuno intonò un dolce canto polinesiano ed è stato allora che su molte guance cominciarono a scendere lacrime di commozione. L’equipaggio del catamarano Hokule’a quel giorno dimostrò che le tecniche di navigazione polinesiane non sono da archiviare in un museo. Loro, usandole, sono riusciti a fare il giro del mondo anche nel 21° secolo.



Fare il giro del mondo in barca ormai non ci sembra più così straordinario come una volta. Trovare la via è facile, abbiamo il GPS. Abbiamo pure un motore che ci salva quando il vento va in sciopero. Persino se ci manca la mamma possiamo chiamarla usando un telefono satellitare. A volte ci dimentichiamo che senza tutti questi gadget una circumnavigazione è ancora un’impresa a dir poco straordinaria. Il successo dell’equipaggio di Hokule’a non era affatto scontato. Si diressero verso l’orizzonte come facevano i loro antenati: niente strumenti di navigazione, niente sestante o bussola. Avevano solo la natura intorno a sè e il sapere di come interpretarla.
A dirla tutta, i polinesiani erano grandi navigatori molto prima degli europei. Durante le lunghe navigazioni oceaniche li guidava una mappa stellare che conoscevano a memoria. Sapevano esattamente dove, quando e quali stelle sarebbero spuntate da dietro l’orizzonte.

Conoscevano le relazioni tra varie stelle e costellazioni e memorizzavano le rotte verso centinaia di isole diverse. Sapevano anche come allineare le stelle e le vette delle isole per trovare i passaggi attraverso la barriera corallina.
Tutto si basava sulla visualizzazione. Sul chiudere gli occhi e vedere la barca al centro della mappa stellare e le varie isole vicine e lontane che man mano scivolano via. Angoli e distanze venivano misurati a mano, senza sestanti e carte nautiche. Si allungava la mano lungo l’orizzonte e si leggeva l’angolo sulla pelle.

I polinesiani erano così connessi col mare che sapevano leggerlo come noi leggiamo una mappa. Nell’oceano aperto non si aiutavano solo con gli astri, ma interpretavano anche i cambiamenti del vento, i colori dell’oceano e le forme delle nuvole, la direzione delle onde, la temperatura del mare… Vicino alla terra i segni cambiavano, apparivano uccelli, pesci diversi, rami e anche le nuvole avevano forme e colori diversi.
Il 14 aprile 2017, con l’arrivo a Tahiti, questo equipaggio di eccellenti marinai ha chiuso il cerchio di 60.000 miglia che aveva tracciato attraverso i mari del mondo per tre lunghi anni. Hanno così confermato ciò in cui credono: che l’oceano ha praticamente tutto ciò di cui abbiamo bisogno per una navigazione sicura. I polinesiani dicono: “Se sai leggere le onde, non ti perderai mai”.
Io purtroppo le onde non le so leggere e quindi non mi metterò mai ad inseguire l’orizzonte senza nemmeno una bussola a bordo. Ma nel mio piccolo, di tanto in tanto, mi faccio un regalo: spengo tutti gli schermi e tutti gli strumenti, prendo in mano il timone e mi metto ad ascoltare il vento che mi legge le sue poesie.
